FONTAMARA
dal romanzo di IGNAZIO SILONE
adattamento e drammaturgia FRANCESCO NICCOLINI (LINK)
una produzione TEATRO STABILE D’ABRUZZO – TEATRO LANCIAVICCHIO
con la collaborazione del CENTRO STUDI IGNAZIO SILONE
COMUNE DI PESCINA, COMUNE DI AVEZZANO
con ANGIE CABRERA, STEFANIA EVANDRO, ALBERTO SANTUCCI, RITA SCOGNAMIGLIO, GIACOMO VALLOZZA
disegno luci CORRADO REA
scenografia e costumi SCENOTECNICA ‘IVAN MEDICI’
realizzazione costumi SORELLE MARCELLI
documentazione video FRANCESCO CIAVAGLIOLI
musiche originali GIUSEPPE MORGANTE
regia ANTONIO SILVAGNI
|
FONTAMARA ha aperto il FESTIVAL DI RESISTENZA alla CasaMuseo Cervi.http://www.istitutocervi.it/2019/07/01/18-festival-teatrale-di-resistenza-7-25-luglio-casa-cervi/ed ha vinto il SECONDO PREMIO del FESTIVAL DI RESISTENZA 2019Per la riscrittura dell’opera l’autore FRANCESCO NICCOLINIha vinto il PREMIO SILONE 2019
|
al minuto 8:10 si parla dello spettacolo FONTAMARA del Teatro Stabile d’Abruzzo e Teatro Lanciavicchio al Teatro dei Marsi
con Lorenzo Pavolini si racconta lo spettacolo teatrale tratto da Fontamara di Ignazio Silone andato in scena a Pescina, nel paese natale di Silone, prodotto dal Teatro Lanciavicchio con il Teatro Stabile d’Abruzzo, e la collaborazione del Maestro Francesco Niccolini.
Lo spettacolo è vincitore del 2° premio del “Premio Museo Cervi-Teatro per la Memoria 2019″ con la seguente motivazione: “Lungo un tragitto di drammaturgica linearità, prende corpo e polifonia di voci l’epica popolaresca dei «cafoni» dell’arretrata Marsica abruzzese, ritratti dalla penna di Ignazio Silone durante gli anni dispotici del fascismo. La regia compone una cerimonia ieratica che evoca un quartetto nerovestito di testimoni, sempre seduti davanti a una vuota schiera di sedie e accanto a uno dei figli sopravvissuti a quella terra martoriata da sfruttatori collusi con il potere fascista. Convincono le sporcature dialettali inferte dai quattro attori al testo e la loro coesione, che crea maggiore empatia verso gli spettatori.(…)”
–
–
FRANCESCO NICCOLINI autore della riscrittura dal romanzo di Silone
Voci. E Fantasmi. Talvolta fantasmi di fantasmi.
Cinque attori: danno voce a un mondo, a un paese, ai suoi abitanti e pure ai loro carnefici. Raccontano – quasi fosse un’opera sinfonica a più voci – la storia di Fontamara, dei Fontamaresi, di Berardo Viola e di Elvira. Le voci dei protagonisti si accavallano con quelle dei personaggi minori: ogni attore deve acrobaticamente passare da un’identità all’altra. Giuvà, Matalè, il loro figlio, Marietta, Scarpone, e poi il generale Baldissera, Papasisto, Venerdì Santo, Ponzio Pilato, Betta Limona, l’impresario, il cavalier Pelino, don Baldissera, le mogli, i carabinieri, un prete venduto, un canonico disperato… un mondo si affolla sul palcoscenico attraverso una partitura ferrea, un’alternanza di presenze e testimonianze. Perché di testimoni si sta parlando: quasi fossimo di fronte a un giudice, o forse al Giudizio Universale, sono tutti chiamati a ricostruire quei giorni osceni pieni di vergogna violenza e disumano accanimento sui più indifesi.
Mano a mano che l’intreccio di sviluppa, prendono corpo le storie dei Fontamaresi e degli abusi dei poteri forti ai loro danni. Più l’ombra incombente del fascismo che si sposa con gli interessi dei latifondisti. E insieme, la storia dei due protagonisti assenti, Berardo ed Elvira: in mezzo a questo concertato di voci, solo le loro mancano. Berardo ed Elvira esistono solo nel ricordo degli altri. Eppure, qui, sono tutti fantasmi. A parte un unico sopravvissuto: il figlio di Giuvà e Matalè. Solo lui si è salvato. Da lui parte il racconto: se fossimo davvero di fronte a un tribunale, lui sarebbe il supertestimone, quello da proteggere, quello da cui dipende la riuscita o meno del processo. Lui evoca tutti i fantasmi, e i fantasmi si presentano e – a loro volta – i fantasmi ne generano altri e altri e altri ancora. Fino alla fine. Fino alla strage. Fino al genocidio. Perché di genocidio si tratta.
«Torno a Fontamara 35 anni dopo il mio primo viaggio. Allora avevo 15 anni: la forza disperata dei tre testimoni protagonisti del capolavoro di Silone non mi ha mai abbandonato. Quello stile piano, colmo di dignità e al tempo stesso di umiliazione, l’ironia della scrittura e la ferocia dei potenti. I privilegi dei ricchi, la loro ingordigia, la presa in giro spietata di un mondo destinato al genocidio. Perché un genocidio è stato. Solo che allora non avevo gli strumenti per capirlo.
Quando vent’anni fa ho avuto la fortuna di lavorare con Marco Paolini e Gabriele Vacis al Racconto del Vajont, uno dei capitoli più duri da studiare e al tempo stesso esempio di coraggio e forza morale, è stata la lettura dell’arringa dell’accusa, scritta dall’avvocato Sandro Canestrini, ora novantaquattrenne: ne fece un piccolo libro, un autentico pamphlet, che intitolò Vajont: genocidio di poveri.
Ecco, tornando a Fontamara a distanza di tanti anni, e con molti chilometri e incontri belli e tragici sulle spalle, penso che questo romanzo capolavoro sia un altro capitolo fondamentale per chi ha deciso di raccontare quel genocidio. Ora, insieme agli attori cafoni – come si definiscono loro stessi – del Teatro di Lanciavicchio e a Tonino Silvagni, provo a portare quelle voci e quei fantasmi sul palcoscenico.»
ANTONIO SILVAGNI il regista dello spettacolo
Fontamara è un romanzo spietato.
Pietà Sentimento di affettuoso dolore, di commossa e intensa
partecipazione e di solidarietà che si prova nei confronti di chi soffre.
Spietato Che non prova pietà, privo di sentimenti di pietà, o che si
comporta senza mostrare pietà, in assenza di pietà.
Questa assenza mi ha suscitato da sempre un certo fastidio
in questo straordinario romanzo, che ho amato, che dovevo amare,
raccontava della mia terra, ma …qualcosa mi allontanava da Silone.
Sentivo che la commozione che io provavo per i cafoni, non
intaccava minimamente Silone e questo lo trovavo inspiegabile,
ma anche insopportabile.
Silone non lascia trasparire mai la pietà per la situazione miserrima
dei cafoni, che pure vivono in condizioni disumane, vengono
imbrogliati, sbeffeggiati, sfruttati, violentati uccisi, ma l’autore tira
avanti dritto nella sua strada narrativa, senza indugiare un momento
in considerazioni sul loro dolore, in descrizioni della loro afflizione.
Malgrado quello che accade ai fontamaresi, Silone non è mai
indulgente con loro, con i loro difetti, le loro meschinità dettate
dall’ignoranza e dalla miseria.
Poi -colpevolmente in ritardo- ho capito che una delle forze del
romanzo è proprio questa assenza di indulgenza da parte
dell’autore, questa scelta di sdradicare ogni forma di pietà
dalla narrazione di una storia cosi terribile, quella spietatezza nella
cronaca di fatti duri, cruenti, immorali che ci accompagna a
all’ ineluttabile destino di morte è il solo modo di raccontare una
società che per affermarsi ha bisogno di calpestare i più deboli, di
sfruttare gli ultimi, di sbeffeggiare l’ingenuità.
L’ assenza di commozione è la strada che intraprende Silone
per commuovere, per commuoverci… ‘farci muovere verso’…
E muovere qualcuno e far muovere qualcosa attraverso l’arte in
un momento storico di coscienze assopite come quello che ha
vissuto Silone, era un grande obiettivo. A lui è riuscito, e riesce
ancora a quasi un secolo di distanza.
Abbiamo cercato con il nostro spettacolo di essere il più possibile
vicini a Silone, abbiamo cercato uno spettacolo asciutto, rigido,
duro. Uno spettacolo senza pietà.
Senza pietà per i cafoni e la loro storia.
Senza pietà per gli attori inchiodati sul posto a dar vita a cento vite.
Senza pietà per quegli spettatori troppo abituati a ammiccamenti e moine.
Senza pietà per i figli dei cafoni di fontamara e le loro storie d’oggi.
TRAILER FONTAMARA spettacolo
VAI alle musiche di FONTAMARA, lo spettacolo
autore Giuseppe Morgante link
RECENSIONE DI ALFIO DI BATTISTA
Il lunghissimo e fragoroso applauso che ha sommerso il teatro San Francesco a Pescina, al termine della trasposizione teatrale di Fontamara, non è stato solo un tributo alla bravura degli attori ma qualcosa di più.
Il ritmo sincopato delle mani battute alla fine della pièce, non è sembrato dissimile dal palpito del cuore di un popolo. In quel momento, il pubblico, trasformato in popolo, è diventato parte della scena, come se palco e realtà fossero diventati la stessa cosa. Questa è la grande forza del teatro.
La scena, brutalmente minimalista, di grande impatto, ha espresso tutta la sua forza evocativa attraverso un sapiente gioco di luci che parevano graffiare le parole pronunciate dagli attori, immobili, sulle loro sedie fra le altre lasciate vuote, come a voler sottolineare l’assenza di qualcosa che trascende l’uomo diventando privazione, ingiustizia, sgomento, senso di vuoto appunto.
Luci, suoni e voci sono i veri protagonisti del dramma che grazie ai talentuosi attori Angie Cabrera, Stefania Evandro, Alberto Santucci, Rita Scognamiglio e Giacomo Vallozza, diretti da Antonio Silvagni, con le musiche di Giuseppe Morgante, prendono per mano lo spettatore trascinandolo in un’altra dimensione del tempo.
L’immaginazione dello spettatore indugia sulle parole degli attori che entrano ed escono dai personaggi restituendo immagini, suoni, profumi e scene di vita la cui autenticità risolve chiaramente il significato e le differenze tra il bene e il male, tra l’arroganza del potere e il popolo sfruttato.
I cafoni sono uomini condannati alla fatica, alla miseria, allo sfruttamento, come condizione imprescindibile del loro essere ultimi. Sono la dimensione di un mondo che diventa l’iconografia epica di tutte le ingiustizie perpetrate dai regimi totalitari e dalle pseudo democrazie, in ogni latitudine della terra.
Non a caso l’opera teatrale inizia con l’ingresso in scena, nel buio, fra il pubblico, di uno degli attori che personifica l’icona degli ultimi dei nostri tempi. L’extracomunitario, l’immigrato. Il personaggio si muove nell’oscurità facendosi strada in platea con l’aiuto di una torcia e poi sale sul palco.
L’extracomunitario attraversa il pubblico, è in mezzo al pubblico, arriva dal pubblico, è parte del pubblico. È uno di noi. Sarà lui a iniziare e terminare la rappresentazione. Sarà lui a salvarsi dal mare mosso dell’indifferenza, sarà lui ad approdare sulla spiaggia di un futuro incerto, sarà lui a dire.
Che fare?
Lanciavicchio porta a teatro Fontamara e il grido degli sfruttati di ogni tempo.
recensione di Grazia Felli 08/01/2020
Emana una forte tensione umana ed etica “Fontamara”, spettacolo del Teatro Lanciavicchio, in questi giorni in tournée nelle sale d’Abruzzo, con la regia di Antonio Silvagni. La drammaturgia porta la firma di Francesco Niccolini, coautore, con Marco Paolini e Gabriele Vacis, del “Racconto del Vajont”, con il quale condivide intenzioni di testimonianza civile e di memoria.
Il fascino dello spettacolo, visto nella rassegna “Teatro Off” di Abruzzo Circuito Spettacolo, è in un allestimento essenziale e raffinato, potente quasi della sola forza della narrazione e di una parola asciutta ed impietosa. Com’era, del resto, nelle intenzioni del regista che nello spettacolo ha racchiuso davvero l’anima del Lanciavicchio e quella vocazione originaria ad un attore “cafone”, volendo con ciò avvalorare un legame identitario d’espressione, di cultura e di territorio.
“Fontamara”, scrive Silvagni nelle note di regia, “E’ uno spettacolo senza pietà. Senza pietà per i cafoni e la loro storia. Senza pietà per gli attori inchiodati sul posto a dar vita a cento vite. Senza pietà per quegli spettatori troppo abituati a ammiccamenti e moine. Senza pietà per i figli dei cafoni di Fontamara e le loro storie d’oggi”. Ma è proprio dall’assenza di compassione che scaturisce il sentimento della partecipazione, della reazione e della rivolta.
Nella scena rituale, in un’oscurità che trasporta nella dimensione del sogno o di una visione, quattro personaggi si stagliano immoti come simulacri, assumendo presenza dai cumuli di terra che ciascuno ha dinnanzi a sé. Stanno seduti, come i vecchi nelle piazze dei nostri paesi d’un tempo. Dalla cintola si dipartono lunghe ed ampie vesti, nere e pesanti che, come radici, sembrano costringerli al suolo, tenerli avvinti a quella stessa terra che li ha generati. Un suolo che inesorabilmente tutto chiama a sé, anche le vecchie sedie fatte calare dall’alto, nella penombra, a evocare altri convenuti, altre presenze. In quel legame fatale con la terra si rivela, del resto, l’essenza dello spettacolo, un doppio della narrazione.
Sono fantasmi e “fantasmi di fantasmi” e sono evocati per testimoniare il dramma di Fontamara e dei suoi abitanti, dando voce ai contadini umiliati e ai loro oppressori e ricomponendo il quadro di una stagione di disumano accanimento dei forti sui deboli che, ben oltre il romanzo, chiama in causa la nostra storia e il nostro oggi. A dare impulso alla narrazione arriva, attraversando la platea, una giovane attrice di colore che si è formata alla scuola del Lanciavicchio. Nella finzione scenica è una discendente dei Fontamaresi ma potrebbe simboleggiare anche un loro correlativo attuale, in un richiamo delicatamente accennato, ma ben presente nelle dichiarazioni della compagnia, alla attualità di analoghe gravi forme di sfruttamento dei “cafoni” d’oggi, quasi tutti nordafricani, massicciamente impiegati nella fertile piana del Fucino.
La fanciulla veste attuali abiti di ragazzo ed assume le funzioni del narratore, o del testimone di un necessario processo alla storia in un tribunale tragico della memoria. I fantasmi pirandellianamente agognano a una presenza, a un’espressione; chiedono di narrare gli immani torti subiti, da cafoni, dediti solo alla terra, umiliati e reietti. Moltiplicando i ruoli, danno vita a una coinvolgente partitura di testimonianze che talvolta assumono la coloritura del dialetto.
I valori di memoria e testimonianza all’interno di una costruzione teatrale ineccepibile ha fruttato allo spettacolo del Lanciavicchio il Premio Cervi al 18° Festival Teatrale di Resistenza. Coprodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo, in collaborazione con il Centro Studi Ignazio Silone, il Comune di Pescina e il Comune di Avezzano, ne sono interpreti Angie Cabrera, Stefania Evandro – direttrice artistica del Lanciavicchio – Alberto Santucci, Rita Scognamiglio e Giacomo Vallozza. Le musiche originali sono di Giuseppe Morgante, le luci di Corrado Rea, scenografia e costumi di Scenotecnica “Ivan Medici”.
“Fontamara” a Scenari di Quartiereregala emozioni e una perfezione recitativa
- Simone Fulciniti 15 Settembre 2019
LIVORNO – Il fatto che l’autore, Francesco Niccolini, avesse vinto quest’anno il
premio Ignazio Silone, faceva chiaramente ben sperare.
Ma da qui a credere che lo spettacolo Fontamara, quinto appuntamento della rassegna Scenari di Quartiere fosse una sorta di capolavoro assoluto, ce ne correvaun bel po’.
Ed invece, gli straordinari attori della compagna abruzzese del ‘Lanciavicchio’, hanno dato vita ad una cavalcalcata straordinaria, di fronte a decine di persone assiepate in piazza Magenta.
Una storia intensa, fatta di povertà, privazioni, violenze. Dove gli squadristi del fascio fanno la voce del padrone, dove i ‘cafoni’ di Fontamara, cercano invano di reagire ai continui soprusi. Quello che sorprende è la fluidità della scrittura, la perfezione recitativa, che rende facilmente accessibile un romanzo piuttosto impegnativo. Una vera e propria orchestra di voci, che si fondono in un unico suono, via via emozionando, e coinvolgendo nella storia l’intera platea.
Rispetto al libro, che Silone aveva scritto in italiano rigoroso, la scelta di Niccolini è stata quella di utilizzare la cadenza marsicana, in modo da fornire al racconto un maggiore spessore espressivo.
Alla fine dello spettacolo, il pubblico ha tributato agli artisti un applauso lunghissimo, durato diversi minuti. Forse il più lungo nella storia di scenari.
Intervista a Stefania Evandro, Teatro Lanciavicchio > Sotto la grande quercia
Blog a cura di Raffaella Ilari
con approfondimenti e interviste agli organizzatori, agli ospiti e al pubblico
del 18° Festival di Resistenza
Gli attori-cafoni di Fontamara
e il coraggio di raccontare la verità
Intervista a Stefania Evandro, Teatro Lanciavicchio
Di Raffaella Ilari
Prima opera di Ignazio Silone, “Fontamara” nell’allestimento del Teatro Lanciavicchio, realizzato in coproduzione con il Teatro Stabile d’Abruzzo diretto da Simone Cristicchi, diventa una sinfonia di testimonianza in cui cinque attori danno voce alla storia dei Fontamaresi, alle condizioni di estrema povertà dei “cafoni” della valle abruzzese del Fucino, un popolo escluso dai processi di ammodernamento, mentre l’ombra incombente del fascismo si sposava con gli interessi dei poteri forti. Ne parliamo con Stefania Evandro, direttrice artistica di Lanciavicchio e una degli interpreti di “Fontamara”, primo spettacolo in concorso al 18° Festival Teatrale di Resistenza.
Cosa vi ha portato a scegliere di mettere in scena questo testo?
Il Teatro Lanciavicchio, che nasce nel 1979, aveva già lavorato su “Fontamara” nei primi anni ’90. Questo lavoro su Silone ha condizionato molto il processo di analisi che la nostra compagnia ha fatto e che tuttora fa in teatro utilizzando il teatro come un momento di scavo e analisi del territorio sia in riferimento alla memoria, sia in relazione ai fatti e agli eventi storici che hanno condizionato in maniera profonda la nostra terra. Ci siamo trovati nella condizione di riscoprire “Fontamara” e ci siamo trovati a dire che ha molto senso ragionare su questo testo perché le problematiche sono tuttora simili. Oggi la Marsica è un enorme orto in cui si coltiva in maniera intensiva e chi lavora le terre del Fucino sono per il 99% ragazzi nordafricani. I cafoni di una volta sono stati sostituiti da manodopera nordafricana ma le condizioni di vita sono le stesse così come identica è la mancanza di strumenti dei lavoratori della terra per capire la propria condizione e cercare di trasformarla per reagire alle angherie e prepotenze in quel momento ad opera del fascismo e che oggi fanno parte di una condizione globale legata all’economia e ai flussi migratori.
Che tipo di riscrittura è stata realizzata?
Abbiamo sentito la necessità di avvalerci della collaborazione di Francesco Niccolini, eccellente traghettatore di una riscrittura di “Fontamara”, che ci ha consentito di rileggere l’opera con la dovuta distanza. Nel testo originario ci sono tre personaggi che raccontano, in scena ne troviamo quattro. E poi dalla platea, dal mondo di oggi, arriva il figlio. Francesco Niccolini è stato bravissimo, a nostro parere, nel trasformare una narrazione divisa in vari capitoli nella narrazione di un popolo. Questo ci è piaciuto molto. Antonio Silvagni ha saputo poi restituire la molteplicità in una soluzione scenografica.
Perché vi definite attori-cafoni?
Fa riferimento a una denominazione di origine del territorio, i cafoni marsicani siloniani, quelli che non riescono a comprendere la situazione che vivono e ad adottare strumenti per cambiare la loro condizione. Ci piace questa identificazione dell’attore-cafone perchè è quell’attore che scava nel suo lavoro per cercare ciò che è al di sotto della storia, della memoria e di problematiche urgenti. Scava per portare alla luce qualcosa come se fosse un lavoro artigianale e di archeologia. Portare alla luce qualcosa di sepolto che si vuole tenere nascosto o che è stato dimenticato.
Che tipo di lingua parlano?
Su questo punto abbiamo riflettuto a lungo a livello registico e drammaturgico. Questo si lega molto con il processo che racconta Silone nella prefazione in cui ci dice che è stato difficile capire quale linguaggio usare. Lui dice al lettore della necessità di far ascoltare la storia a tutti perché voleva raccontare quanto un sistema economico e politico abbia stritolato un territorio e i suoi lavoratori nella Marsica di allora come in tanti altri luoghi. La lingua è stata quindi centrale. All’inizio abbiamo sentito la necessità di sporcare l’italiano, che andava bene per la lettura, con il dialetto, poi abbiamo trovato un equilibrio. Antonio Silvagni ha cercato un equilibrio tra italiano e dialetto restituendo ai narratori la necessità di parlare a tutti, di non parlare quindi un dialetto molto stretto ma mantenere all’interno dell’italiano delle ‘sporcature’, delle espressioni autenticamente dialettali che restituiscono il suono della nostra terra.
Quale è la contemporaneità del testo di Silone?
Nelle sue intenzioni c’era l’esigenza di raccontare anche la radiografia di un controllo politico ed economico su un territorio. Lui diceva che i strani fatti su “Fontamara” sono accaduti in più luoghi e in diverse epoche ma non è un motivo buono per tacerli. Raccontare oggi la verità è importante perché viviamo momento storico complicato in cui bisogna essere attenti, stare all’allerta perché assistiamo a esternazioni socio-politico a cui non avremmo mai pensato di assistere. È emozionante per questo raccontare “Fontamara” a Casa Cervi perchè oggi bisogna essere pronti a raccontare qualsiasi ingiustizia e avere il coraggio di prendere posizione senza ambiguità. La scelta di essere attori cafoni è anche quella di guardare il mondo dall’ultimo gradino della scala.
https://www.istitutocervi.it/2019/07/07/Intervista+a+Stefania+Evandro%2C+Teatro+di+Lanciavicchio/